La storia di Rimini
I piatti

I cappelletti

Nel riminese e in tutta la Romagna il piatto canonico, il "convitato passivo" d'obbligo del pranzo di Natale sono i cappelletti. Qual è l'età dei cappelletti? Le fonti storiche non consentono di stabilirla con precisione. La prima testimonianza è del 1811. In quell'anno il Regno d'Italia promosse un'indagine (nota come Inchiesta napoleonica) sulle tradizioni, le usanze, i dialetti e le superstizioni degli abitanti delle campagne. Utilizzando le informazioni fornite da sacerdoti, insegnanti e podestà, il prefetto di Forlì, il milanese Leopoldo Staurenghi, provvide poi a stendere un rapporto finale. Le notizie d'interesse alimentare e gastronomico sono irrisorie, ma non manca un sorridente e un po' malizioso accenno ai cappelletti. A Natale - scrive dunque Staurenghi - "presso ogni famiglia si fa una minestra di pasta col ripieno di ricotta che chiamasi di cappelletti". "L'avidità di tale minestra è così generale," egli co ntinua "che da tutti, e massime dai preti, si fanno delle scommesse di chi ne mangia una maggior quantità, e si arriva da alcuni fino al numero di 400 o 500. Questo costume produce ogni anno la morte di qualche individuo per forti indigestioni". Nel 1811, quindi, i cappelletti già esistevano ed erano di rigore a Natale. Poichè si era già instaurata una tradizione, è logico pensare che la loro nascita sia anteriore di almeno un cinquantennio, e forse di un secolo buono. Com'erano fatti? Più o meno come quelli attuali. Ce lo conferma il forlivese Michele Placucci, che nel 1818 pubblicò una memoria sugli Usi e pregiudizi dei contadini della Romagna, dove fornì una sintetica ricetta dei cappelletti, "minestra composta di ricotta, formaggio, uova, aromi: il tutto avvolto in pasta, detta spoglia da lasagne". Nel ripieno (o "compenso") dei cappelletti "arcaici" non entrava la carne. La sua introduzione è forse abusiva? E' vero, come sostiene il ravennate Corrado Contoli, che "l'aggiunta di carni esula dalle migliori tradizioni"? E' condivisibile l'asserzione di Aldo Spallicci che il cappelletto con la carne è una contaminazione col suo cugino bolognese, il tortellino? E' il caso - come fa Spallicci - di appellarsi all'autorità dell'Artusi, che, a suo dire, li voleva rigorosamente magri? Non è il caso di essere integralisti. Da un secolo abbondante si hanno due o forse tre varianti, tutte legittime. E tutte ammissibili: ecumenicamente. La tradizione ravennate e cesenate generalmente non accetta le carni; quella forlivese è possibilista; quella riminese, sammarinese e pesarese addirittura le esige; e ne vuole addirittura di tre tipi: maiale, vitello e cappone. Quanto all'Artusi, Spallicci prende evidentemente un abbaglio, perchè nella sua ricetta dei "Cappelletti all'uso di Romagna" il celebre gastronomo di Forlimpopoli prescrive espressamente il petto di cappone e non si formalizza neppure sul lombo di maiale. Esistono insomma, dei cappelletti, una versione "povera" (o "di magro") e una "ricca" (o "di grasso"), entrambe presenti nella "bibbia" artusiana. Generale è invece l'accordo sul fatto che la "morte" dei cappelletti è la cottura in brodo (di gallina vecchia, o di cappone, e di poco manzo magro). La spolverizzata finale di parmigiano sul piatto è, peggio che un pleonasmo, un eccesso. Il solo cappelletto asciutto praticabile è quello "di magro" (cioè senza carne) condito con burro e formaggio (va benissimo anche il "formaggio di fossa"), poichè il ragù aggredisce e strapazza il delicato impasto. Di panna, esecrabile relitto degli anni Sessanta, di funghi e di pasticci vari non si parli neppure, o rompiamo un'amicizia.
Luoghi da visitare
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