Rimini misteriosa
Mostri
Siamo agli inizi del Seicento. Don Giacomo Antonio Pedroni, canonico della Cattedrale di Santa Colomba, si aggira curioso fra le bancarelle della piazza Grande o di Sant'Antonio (oggi Tre Martiri), cuore economico della città e animatissimo centro di scambi commerciali e sociali. Sotto i portici del lato monte si aprono numerose botteghe di alimentari, tessuti e manufatti artigianali. Dal lato opposto spira l'odore acre delle beccherie. Le sovrasta, da ormai mezzo secolo, la torre dell'orologio e le affianca la mole di tre chiese. La piazza ospita, oltre al mercato settimanale, fiere di bestiame, giochi, palii, tornei, corsi e balli carnevaleschi, processioni, prediche quaresimali. Vi bazzicano guitti e cantastorie, ciarlatani e ladruncoli. E, talora, singolari passeggeri che esibiscono a pagamento le loro inconsuete e arcimboldesche fattezze: i cosiddetti "mostri".
Siamo in età barocca, e il meraviglioso attrae morbosamente. Si occupano di teratologia medici e naturalisti del calibro di Ulisse Aldrovandi, Fortunio Liceti e Ambroise Parè (ricordiamo, per inciso, che sulle mostruosità animali e vegetali - vitelli a due teste e gatti siamesi - disquisirà, nel 1749, anche il riminese Giovanni Bianchi, in arte Jano Planco). I gabinetti dei collezionisti traboccano di corni d'unicorno e di mummie di sirene, di salamandre e di radici di mandragora, di autentici scherzi di natura e di assemblaggi truffaldini. Il pubblico di tutti i ceti fa letteralmente a cazzotti - crudelmente - per ammirare eccentrici sembianti e membra fuori squadro.
Il 9 ottobre 1627 don Pedroni ha la ventura di conoscere una donna barbuta: una "forestiera dell'età sua sopra i cinquant'anni, di carne olivastra", portata in giro per l'Italia dal non disinteressato consorte. Costei ha una barba nera "lunga un palmo" e "il pelo nero sopra le tette com'hanno molti uomini". L'irsuta signora racconta, con voce inequivocabilmente femminile, di essere nativa di Cum, villaggio mongolo tra Vis e Cassi (accoppiata che in un riminese d.o.c. suscita, per assonanza, qualche ilarità), e che l'onor del mento le era cominciato a spuntare a quattordici anni. Aveva avuto due figli, che non erano sopravvissuti. Un'altra donna barbuta farà tappa a Rimini due secoli dopo, nel settembre del 1815. Filippo Giangi, poco cavallerescamente, paragonerà la sua fluente barba a quella dei frati Cappuccini.
Il 6 ottobre 1619, nella bottega del barbiere Mengarello, don Pedroni fa la conoscenza con un'autentica celebrità nel ramo: due gemelli maschi dell'età di due anni e mezzo, di cui il maggiore - "gagliardo et robusto oltre ogni modo" - ha attaccato al corpo, all'altezza dell'ombelico, "un altro putto" con due braccia e una sola gamba, gli occhi chiusi, "i denti in bocca", quantunque non mangi e "riceva nutrimento" dal fratello. Sono entrambi "di capelli biondi e crespi" e - a detta del padre - genovesi e battezzati: il maggiore col nome di Lazzaro e l'altro con quello di Giovan Battista. Lazzaro veste una "ciammarrina di drappo turchino" e Giovan Battista "un abito di bambagia bianca". Ospiti abituali delle corti e della nobiltà più titolata, Lazzaro e Giovan Battista Colloredo (è questo il loro cognome) continueranno a vestire con ricercata eleganza anche in età adulta, come mostra il ritratto che se ne è conservato. Lazzaro è in man tello, calzoni con falpalà, scarpini col tacco. Dal giustacuore aperto il gemello parassita si rovescia indietro, in una sorta di cieco tuffo nell'Ignoto.