Spettacoli e cultura

"E' cino, la gran bòta, la s-ciuptèda", poesie di Gianfranco Miro Gori

Ultime News - Mercoledì 26/11/2014, ore 18:37 - Rimini

Dopo sei anni, ecco una nuova raccolta di versi in dialetto sammaurese di Gianfranco Miro Gori, la quarta. Gori ritorna alla poesia con  E' cino, la gran bòta, la s-ciuptèda (Il cinema, il gran botto, la fucilata, Fara Editore, Rimini, 2014, p. 84, Euro 11). Un titolo che potrebbe indurre a pensare a tre diverse parti, si tratta invece di un solo “racconto”. Come spiega nella Prefazione il critico Ennio Grassi, il titolo è “la partitura stessa della raccolta giacché non si tratta di scansioni tematiche ma di 'stanze', luoghi di un'unica dolente narrazione poetica”. 
Seguitando con Grassi, la prima stanza, E' cino, “coglie il senso privato e collettivo di una perdita epocale”. A partire dal verso “a vói zcòr in dialèt de cino (voglio parlare in dialetto del cinema)”, s'annodano la morte del cinema e quella del dialetto. "E'cino l è mórt / e' dialèt l è mort. / O /  i s aréugla tut dèu / piò o mènch / te bacaiadéz dla televisiòun, / te ciacaradéz ad internet  (Il cinema è morto / il dialetto è morto. / O / ruzzolano entrambi / più o meno / nel vociare della televisone, /nel chiacchiericcio di internet)". 
 Nella seconda "stanza", La gran bòta, " si passa al monologo "che –- nota Grassi - inscena la più alta delle narrazioni, quella sull'origine del mondo". Il Big Bang. "Tót inquél l'è vnu fura s'una gran bòta. / U n gn'era gnént. A n simi invèl [...] (Tutto quanto è scaturito con un  gran botto. / Non c'era nulla. Non eravamo da nessuna parte)". Il tutto scandito in diverse fasi: l'acqua, il fuoco, la posizione eretta, il bastone, le storie: "un'interrogazione laica sul senso delle cose - è ancora Grassi a parlare - , sul 'meraviglioso' e il 'pauroso' che avvolge l'umanità fino al momento in cui l'interrogazione si è fatta racconto, storia di una storia". "Da la maravéia, da la pavéura l è sgurghè /  una masa ad stóri, óna diversa da cl'èlta, / óna piò bèla ad cl'èlta, e bóni par cròidi […] / La bòta la è vnuda fura dal stóri dla bòta (Dalla meraviglia, dalla paura sono scaturite / molte storie, una diversa dall'altra, / una più bella dell'altra, e  adatte a essere credute […] / Il botto è scaturito dalle storie del botto)”. 
La terza e ultima “stanza”, La s-ciuptèda, è costituita da due monologhi in prima persona e rappresenta una specie di “ritorno a San Mauro”. Sono in scena Ruggero Pascoli e il suo assassino. Commenta Grassi: “Ora possono raccontare la verità e la raccontano senza reticenza alcuna, nella lingua di una Spoon River senza tempo”.
L'autore, Miro Gori, dopo aver premesso che sono i versi che debbono parlare, ha detto: “Volevo mettere a confronto il dialetto (lingua delle madri e dei padri) con il medium più importante del Ventesimo secolo, il cinema; con la principale delle narrazioni, quella dell'origine del mondo; con uno degli omicidi impuniti più famosi delle patrie lettera, quello del padre di Pascoli. Non volevo dimostrare nulla. Ovviamente. Anche se su questi argomenti rifletto e ho riflettuto per buona parte della mia vita (il cinema è stata la mia professione; l'origine del mondo l'ho incrociata  sin dai primi studi di filosofia; dell'omicidio Pascoli ho udito parlare sin da bambino, occupandomene poi in età adulta), volevo provare a 'mettere in scena' in dialetto una   storia. Composta di tre atti”